Eroi delle olimpiadi: storie di sacrificio e determinazione

2024, anno olimpico. L’evento sportivo che da sempre è in grado di catalizzare l’attenzione di miliardi di spettatori e telespettatori è tornato. E ci ricorda che, in un’epoca in cui tutto sembra facile, a portata di mano, in cui sentiamo continuamente parlare di intelligenza artificiale e di come questa possa essere usata per fare meno sforzo, sono la dedizione, la perseveranza e il sacrificio gli elementi che si nascondono dietro ogni medaglia, ogni record e ogni performance.

Nella storia delle Olimpiadi gli atleti che desideravano partecipare ai giochi olimpici hanno dovuto affrontare numerosi ostacoli, sia logistici che finanziari. Per molti il viaggio era un’avventura di settimane o mesi e le condizioni di viaggio erano spesso scomode e affaticanti, con scarsa possibilità di allenarsi durante il tragitto. Una soluzione venne trovata dall’hawaiano Duke Kahanamoku, che per arrivare a Stoccolma (1912) e partecipare ai 100 metri stile libero aveva praticamente fatto il giro del mondo e si era allenato duramente a bordo della nave che lo aveva portato in Europa.

Il primo atleta portoghese a partecipare ai Giochi Olimpici a Stoccolma del 1912, Francisco Lázaro, dimostrò una grande determinazione, nonostante le difficoltà economiche della famiglia. Il suo talento e il suo impegno lo portarono a vincere diverse gare podistiche locali, attirando l’attenzione dei funzionari sportivi portoghesi. Lázaro si preparò per la maratona olimpica con grande entusiasmo, ma anche con poche risorse. Come molti atleti del tempo, non aveva il sostegno di allenatori professionisti o l’accesso a strutture avanzate per la preparazione. La maratona si svolse il14 luglio sotto un caldo estivo implacabile, con temperature superiori ai 30 gradi. Per gli atleti dell’epoca, le sfide erano molteplici: non c’erano rifornimenti regolari di acqua lungo il percorso e la conoscenza delle corrette pratiche di idratazione e nutrizione era molto limitata. Lázaro, consapevole delle difficoltà, decise di coprirsi il corpo con una sostanza a base di cera o di grasso per proteggersi dal sole e dalle alte temperature, errore che si rivelò fatale. La sostanza, infatti, impedì la normale traspirazione della pelle, causando un aumento eccessivo della temperatura corporea: intorno al trentesimo chilometro, il suo corpo cedette; immediatamente soccorso e trasportato in ospedale, morì nelle prime ore del mattino successivo.

Quando si pensa agli eroi olimpici, è impossibile non ricordare Jesse Owens (1913 – 1980), l’atleta afroamericano che sfidò non solo i suoi avversari, ma anche l’ideologia razzista di Adolf Hitler, che aveva pianificato di usare i Giochi per dimostrare la superiorità della razza ariana. Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, Owens vinse quattro medaglie d’oro nei 100 metri, 200 metri, salto in lungo e staffetta 4×100 metri. Wilma Rudolph (1940 -1994) è una delle figure più iconiche nella storia dello sport, una donna che ha superato sfide incredibili per diventare una delle atlete più veloci del mondo. Ventesima di ventidue figli di una famiglia indigente del Tennesse, Wilma nacque in una casa senza elettricità e acqua corrente, in una città che aveva ben poco da offrire e in cui la discriminazione razziale era ancora molto marcata. A 5 anni contrasse la polmonite e la scarlattina, a 8 la poliomielite, che le paralizzò quasi del tutto la gamba sinistra: i medici le dissero che non avrebbe più camminato. Con enormi sacrifici la famiglia le comprò un tutore che le supportava la gamba e due volte a settimana prendeva l’autobus che percorreva 80 km, fino a Nashville, per raggiungere l’unico ospedale per neri che prestava cure. Wilma stessa non si arrese mai e la sua gamba sinistra miracolosamente ricominciò a muoversi. Sebbene sembrasse un miracolo che potesse anche solo camminare, Wilma cominciò a giocare a basket e presto scoprì una passione e un talento naturale per la corsa. Al liceo, si distinse come una delle velociste più promettenti della sua città e attirò l’attenzione di un allenatore di atletica leggera. A 16 anni fu selezionata per rappresentare gli Stati Uniti alle Olimpiadi di Melbourne del 1956, dove vinse la medaglia di bronzo nella staffetta 4×100 metri. Il vero momento di gloria arrivò però alle Olimpiadi di Roma del 1960. Aveva appena 20 anni, ma era già determinata a lasciare il segno. Nella capitale, la giovane velocista divenne la prima donna americana a vincere tre medaglie d’oro in un’unica edizione delle Olimpiadi. Trionfò nei 100 metri, nei 200 metri e nella staffetta 4×100 metri, stabilendo record mondiali e olimpici.

Lo stesso anno a Roma trionfò nella maratona l’etiope Abebe Bikila (1932-1973). Cresciuto in una zona rurale, trascorse gran parte della sua infanzia aiutando i genitori nei campi e percorrendo lunghe distanze a piedi per svolgere le sue attività quotidiane. Questa abitudine di camminare e correre per lunghe distanze, anche scalzo, forgiò il suo fisico e sviluppò la sua straordinaria resistenza. Bikila è passato alla storia per aver corso 42,195 km a piedi nudi, come era abituato a fare negli allenamenti in Etiopia. Attraversò la linea d’arrivo con un tempo record di 2 ore, 15 minuti e 16,2 secondi, stabilendo un nuovo record mondiale per la maratona. Quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Tokyo 1964 vinse nuovamente la gara “regina” solo 40 giorni dopo essersi sottoposto a un intervento chirurgico per appendicite: il cronometro si fermò a 2 ore, 12 minuti e 11,2 secondi, migliorando di quasi tre minuti il record che aveva stabilito nella capitale italiana.

L’atleta giapponese Shizo Kanakuri (1891-1983), è il protagonista di una delle vicende più insolite e affascinanti legate ai Giochi Olimpici. Per partecipare alle Olimpiadi di Stoccolma 1912 Kanakuri dovette affrontare un viaggio estenuante che durò 18 giorni, un misto di treni e navi che lasciò lui e i suoi compagni di squadra affaticati e disidratati ancor prima di arrivare alla destinazione. Il giorno della maratona olimpica il caldo svedese era soffocante, con temperature che raggiungevano i 32 gradi. A metà gara, Kanakuri era visibilmente affaticato e disidratato. Dopo aver percorso circa 30 chilometri, il giovane giapponese accettò l’invito di uno spettatore a entrare in casa sua per riposare e bere qualcosa, ma, sopraffatto dalla fatica, si addormentò profondamente nel giardino. Quando si svegliò diverse ore dopo, all’imbrunire, la gara era conclusa da tempo. Colto da un profondo senso di vergogna, l’atleta decise di non tornare allo stadio e di ripartire per il Giappone senza lasciare traccia di sé, senza avvisare né gli organizzatori né i compagni di squadra. Questa improvvisa e inspiegabile scomparsa divenne un vero e proprio mistero. Per molti anni, Kanakuri fu considerato “disperso” dalle autorità olimpiche svedesi e il suo nome rimase associato a questo enigma. La sua leggenda come “maratoneta scomparso” continuò a crescere fino agli anni Sessanta, quando un giornalista venne incaricato di rintracciarlo: con sua grande sorpresa scoprì che Kanakuri viveva ancora a Tamana, era padre di sei figli, nonno di 10 nipoti, e aveva fatto per molti anni il maestro di geografia in una scuola della città. Il Comitato Olimpico Svedese decise di invitarlo nuovamente in Svezia per completare la maratona “incompiuta”. All’età di 75 anni, Kanakuri accettò l’invito e tornò a Stoccolma per concludere finalmente la gara iniziata 55 anni prima. Attraversò il traguardo con un sorriso, dichiarando con ironia che aveva stabilito il “record mondiale” per il tempo di completamento di una maratona: 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti e 20,3 secondi.

Anche per molti atleti del XXI secolo il cammino verso le Olimpiadi non è stato certamente lastricato d’oro. Molti di loro provengono da Paesi con risorse limitate per lo sport, dove mancano le strutture adeguate, i programmi di allenamento professionale e persino il supporto finanziario necessario per competere a livello internazionale. È il caso di Eric Moussambani, noto come “Eric the Eel” (Eric l’anguilla), nuotatore della Guinea Equatoriale che ha gareggiato alle Olimpiadi di Sydney 2000. Moussambani aveva imparato a nuotare solo pochi mesi prima delle Olimpiadi e si è allenato in una piscina d’albergo lunga appena 20 metri. Gli unici due avversari della sua batteria vennero squalificati perché si tuffarono prima dello start ma, per regolamento, dovette comunque disputare la gara da solo, completando la gara dei 100 metri stile libero in un tempo molto lontano da quello dei migliori nuotatori (1’52″72, più del doppio rispetto alla media degli altri atleti). L’atleta ricevette comunque una standing ovation dal pubblico per il coraggio e la determinazione dimostrati e, nonostante le difficoltà e l’inesperienza, divenne il nuotatore più celebrato dell’Olimpiade insieme al siluro australiano Thorpe.

Degna di menzione è la rifugiata siriana Yusra Mardini che ha sfidato tutte le probabilità per competere come parte della prima squadra olimpica dei rifugiati a Rio 2016. Fuggita dalla guerra civile in Siria nel 2015, Mardini ha affrontato un pericoloso viaggio su un gommone attraverso il Mediterraneo, durante il quale ha dovuto nuotare per ore con la sorella per spingere il suo barcone in salvo.

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